Xinjiang: Morti diversi!!
(Pubblicato su Affari Italiani il 14 Luglio 2009)
In queste ore, nello Xinjiang è in corso una “cinica” guerra delle cifre: il conteggio dei morti nelle giornate di scontri.
Alle autorità cinesi, che hanno ufficialmente aggiornato il bollettino a 184 vittime, risponde da Washington Rebiya Kadeer, leader del World Uyghur Congress, affermando che le vittime “sono mille o forse di più”.
Fin qua tutto secondo “copione”, ma dietro questa “guerra delle cifre”, cominciano anche ad emergere delle “incongruenze” che meritano un’analisi.
Su 184 morti, ben 137 sono infatti di etnia Han, cioè l’etnia prevalente in Cina (di cui 111 uomini e 26 donne), mentre 46 (di cui solo una donna), sono quelli di etnia Uigura, cioè la minoranza etnica scesa in piazza per protestare.
Qualcosa quindi non torna nella storia raccontata su tutti i media occidentali, secondo cui “la polizia avrebbe massacrato inermi manifestanti della etnia Uigura”.
Oltretutto, se come in queste ora viene affermato dai leader secessionisti Uiguri, ci fossero stati migliaia di morti, carri armati o camionette che passavano sui cadaveri dei manifestanti, appare incredibile che non esista una sola foto, un’immagine di queste atrocità e di quello che il mondo intero ha immediatamente bollato, come un “massacro”.
O meglio, esistono moltissime immagini delle televisioni cinesi, immagini anche molto crude, violente, di gente che viene pestata a sangue da altri comuni cittadini, immagini che raccontano comunque una storia ben diversa.
Ovviamente, molti commentatori occidentali, pur di non dover dire di essersi “sbagliati”, hanno finito per mettere subito in dubbio queste immagini, definite addirittura “abili tagli governativi”, visto che invece di vedere Uiguri ammazzati dalla polizia, mostravano proprio gli Uiguri che pestavano uomini e donne della etnia Han.
Ora di fronte a queste cifre e dove ben il 75% dei morti sono cittadini cinesi della etnia Han, le stesse “penne” tacciono.
Per giorni però, il bombardamento mediatico di quelle ore, fece passare la notizia, mai smentita, che la polizia cinese stesse ammazzando, a sangue freddo, cittadini inermi della etnia Uigura, durante una manifestazioni pacifica.
Ma c’è dell’altro: nelle corrispondenze occidentali, i morti sono “diversi” e quindi si parla di cinesi quando si fa riferimento ai morti di etnia Han, mentre semplicemente di Uiguri, quando si fa riferimento ai morti della etnia mussulmana, turcofona.
Con ciò, si tende ad avvalorare l’idea che i morti appartengano a due nazioni diverse, dimenticandosi che per quanto di etnia diverse, i morti sono TUTTI e solo Cinesi.
Comunque sia, quanto accaduto nello Xinjiang, non convince del tutto le autorità cinesi, anche alla luce dei continui appelli dall’estero da parte dei movimenti secessionistici, che continuano a “sparare” numeri di morti a spanne, con il chiaro intento di “intercettare” il supporto dalla comunità internazionale sulle loro aspirazioni secessionistiche.
Ma chi sono veramente gli Uiguri?
Basta però fare un passo indietro nella storia della regione, per scoprire anche in questo caso, una verità un po’ diversa da quella apparsa sui media occidentali.
Sul piano territoriale, l’attuale Xinjiang fu conquistato dai cinesi nel 1755, diventando nel 1884 provincia regolare dell’impero cinese.
Ma è sulla “millenaria” identità uigura che rivendica ora la propria indipendenza che si hanno le maggiori sorprese.
Incredibilmente, infatti non esistono notizie di alcuna identità Uigura, fino agli anni ‘30, identità che trae invece ispirazione dai movimenti nazionalistici e socialisti della neonata Unione sovietica e della Terza Internazionale.
Il nome a cui si ispirarono, fu preso dall’impero uiguro dell’8°, 9° secolo che effettivamente occupava una parte dell’attuale Xinjiang, ma le due popolazioni non hanno nulla a che fare l’una con l’altra.
Infatti, mentre gli antichi uiguri erano mongoli e buddisti, gli attuali uiguri sono turcofoni e musulmani.
Quindi quanto sta accadendo in questi giorni nello Xinjiang, sembra effettivamente strettamente collegato ad un ritorno del “nazionalismo” uiguro degli inizi del ‘900, che portò ad una temporanea indipendenza tra il 1944 al 1949, in quello che fu allora chiamato Turkestan Orientale.
Lette sotto la lente della “storia”, appaiono quindi del tutto esagerate, le accuse di “genocidio” che da molte parti del mondo, si stanno alzando contro la Cina.
Contemporaneamente, appaiono decisamente esagerate, le pretese degli stessi Uiguri, che stanno cercando di farsi passare per i millenari abitanti di quelle terre, fatto che non appare dimostrabile su base storica.
Ma a parte una lettura storica della vicenda, esistono anche riscontri sul piano investigativo, che sembrano confermare l’esistenza di una regia esterna ai fatti accaduti la settimana scorsa.
Un ruolo determinante lo hanno le telefonate proprio della Rebiya Kadeer, al fratello che vive in Urumqi, telefonate antecedenti ai fatti e nelle quali avvisava il fratello di come fosse a conoscenza che ci sarebbero stati degli scontri nella città.
Detto questo, a far paura ai cinesi, non è di per sè il “ritorno di fiamma” del nazionalismo Uiguro, bensì il fatto che possa portarsi dietro una minaccia “islamica” che coinvolga la Cina nel terrorismo internazionale.
Nei mesi scorsi, sono stati catturati in Afghanistan guerriglieri Uiguri che combattevano nelle file talebane, la prova di una connessione esistente tra le diverse anime Islamiche che ora potrebbero volersi inserire nella questione Uigura, attraverso azioni violente.
Ma esiste un altro aspetto, legato alla tradizione, che rende i cinesi ancora più diffidenti.
L’importanza dei cicli nella storia Cinese
Il prossimo 1° ottobre, si festeggia il 60° della nascita della Repubblica Popolare Cinese.
Quest’anno avrà però un significato simbolico particolare che si perde nella notte dei tempi della millenaria storia cinese.
Infatti il numero 60, nella cultura cinese, rappresenta nel calendario Cinese il completamento di un ciclo completo, composto da 5 sottocicli di 12 anni ciascuno.
Quindi, scaramanticamente, per i cinesi è importante che non accada nulla fino al termine di questo ciclo, un grande valore simbolico anche sulla continuità dell’attuale equilibrio politico.
I “nemici” della Cina, per contro, cercheranno di “offuscare” questa data, proprio per cercare di lanciare un “segno” contro tale continuità.
La “provocazione” di Taiwan
Da queste parti queste cose hanno ancora un grande importanza, basti pensare alla ferita ancora aperta di Taiwan.
A parte la questione strettamente territoriale, esiste infatti un’altra ragione, per così dire di “legittimità”, che per lungo tempo ha realmente fatto rischiare la guerra nello stretto.
Infatti, quando Chiang Kai-shek decise di fuggire sull’Isola di Formosa, l’attuale Taiwan, si portò dietro anche qualcosa di molto, molto importante: i 25 sigilli imperiali dell’epoca dei Qing, che simboleggiano il potere imperiale, ora esposti al museo di Taipei.
Nella cultura cinese, quando un contendente viene sconfitto, viene anche eliminato tutto quello che possa fare riferimento al perdente, che viene quindi letteralmente “cancellato”.
E’ stato sempre così, nel susseguirsi delle diverse dinastie che hanno dominato l’Impero Cinese.
Questi sigilli sono quindi una sorta di “provocazione”, la prova di qualcosa di lasciato “incompiuto”, oltre che una rivincita degli sconfitti, che così possono ancora cercare di dimostrare al popolo cinese, la presunta illegittimità della nuova dirigenza.
L’unità della nazione come “valore supremo”
Ma tornando ai fatti nello Xinjiang, bisogna ricordarsi come esista un “valore supremo” che i cinesi contemporanei intendono preservare ad ogni costo: l’unità della nazione.
Valore attorno al quale tutti i cinesi si riconoscono e che li lega in maniera indissolubile al partito, garante di questa unità ritrovata, dopo un lungo periodo di rovinose guerre civili e fratricide.
Qualcosa che non è trattabile, fortificato dalle umiliazioni subite di fine ‘800 e inizi ‘900, da parte degli occidentali, eventi scolpiti nelle menti di tutti i cinesi, non più disposti a riviverle.
La violenza distruttiva degli Uiguri e il fatto che abbiano ammazzato così tanti cittadini, è stata quindi interpretata come un attacco all’unità del paese e ciò spiega perché tutti i cinesi, senza esitazioni, abbiano chiesto al governo il ripristino dell’ordine.
L’aver rotto il “sottile” legame che teneva in equilibrio le due etnie in questa regione, ha vanificato il tentativo di una qualche integrazione perseguita negli anni.
Per questo occorre stare attenti, sui media occidentali, ad “accreditare” storie “scritte a tavolino” da gruppi secessionisti, in questo caso di matrice islamica, che totalmente sconnessi dai fatti storici, possono però accendere pericolose micce che possono diventare una grande incognita per il futuro.
Ma ancora prima di qualsiasi considerazione politica, occorre smettere di continuare a distinguere tra loro i morti di questi giorni, tutti cinesi, a prescindere dalla loro etnia o credo religioso.
Sarebbe un primo concreto passo per aiutare a cercare di ricomporre le “distanze” di queste ore.