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giovedì 16 maggio 2013

Come i tablets vengono utilizzati in Asia?



Da una ricerca IDG era emerso di recente come in Africa solo il 55% degli utenti possedesse un Tablet, comparato con una media mondiale del 71%.

Ma il vero dato interessante era il livello reale di utilizzo dove emergeva come ben l'80% degli utenti africani ne facesse un uso quotidiano, un livello decisamente superiore al 61% registrato a livello glabale. E come si comportano gli utenti asiatici?.

Di seguito la ricerca IDG che cerca di mettere a fuoco la dinamica del pianeta Asia.

lunedì 21 marzo 2011

La solita ipocrita “miopia” occidentale

Mi spiace che forse per un eccesso d’interventismo di alcuni paesi, Francia in primis, ora si sia dato il via ad una operazione militare che, pur comprendendone le ragioni ufficiali, rischia di rivelarsi un terribile errore strategico se non un boomerang per l’occidente.

Le ragioni di questi dubbi nascono dal fatto che queste azioni militari ora giustificano lo spostamento delle "attenzioni" non più su una questione interna prettamente libica ma su uno scontro tra nazioni e non ultima, rischia anche di portarsi dietro uno scontro tra religioni, fino ad ora ben fuori dal contendere.

Tutto questo in tempi di "guerre sporche" che non necessitano di armate ed armamenti sofisticati ma dove pochi fanatici facinorosi, possono in ogni momento portare in ogni dove le tensioni che fino all’altra sera, volenti o nolenti, sarebbero comunque rimaste relegate alla Libia.

A questo si somma anche il dubbio che dietro le pur comprensibili motivazioni umanitarie ufficiali, ci siano in realtà ben altre ambizioni di geopolitica e di ridefinizione degli equilibri internazionali dell’area se non di carattere prettamente economico, vista anche la grande disponibilità energetica della Libia, qualcosa che le attribuisce un peso altrimenti non così strategico sullo scacchiere internazionale.

E’ opinione diffusa che le guerra del futuro sarebbero state causate da tre emergenze planetarie che incombono: Energia, Acqua e Cibo. Le tensioni di queste settimane in più parti del mondo sembrano tutte avere almeno una di queste motivazioni quale causa scatenante.

Iraq ed Afghanistan poi sono li a monito di come gli interventi “sulla carta” di pace, anche se richiesti dalla stessa popolazione di quel paese, come è stato proprio in Afghanistan, rischiano poi trasformarsi in guerre di occupazione di lunga durata con l’effetto a sorpresa che ora il “popolo oppresso” Afgano che aveva richiesto l’intervento occidentale, sta chiedendo agli occidentali di “levare le tende” e nel contempo ha aperto un tavolo di negoziazione con i vecchi nemici che non si fatica a pensare, nel futuro possano diventare buoni amici.

Un parallelismo tutt'altro che azzardato, visto che è cosa nota come la Libia sia tutto tranne che uno stato unitario, dove da decenni sono rimaste congelate le conflittualità che hanno da sempre caratterizzato i diversi gruppi tribali che ora, come una eruzione di un vulcano, rischiano di riemergere e vanificare l'idea stessa che possa esistere una unica Libia, l'idea occidentale che ha scatenato l'attacco militare.

Perchè è evidente che dopo le armi, bisognerà che si decida chi possa diventare la nuova guida del paese. E su questo punto credo gli occidentali avrebbero probabilmente fatto meglio a riflettere più a lungo se non lasciare che rimanesse realmente una cosa interna alla Libia, perchè statistiche alla mano, ci sono stati più morti civili post guerra dell'Iraq che in tutto il periodo bellico della sua “liberazione”.

I pazzi sono tali. E contro la pazzia non è mai corretto scendere sullo stesso piano.

La pazzia dei Gheddafi e di altri dittatori come lui, di fronte al cambiamento del mindset che sta emergendo nell'area, avevano comunque le ore contate.
E' altresì noto che dietro i ribelli in Libia ci fossero gli aiuti dell'Egitto. Così come in Siria in queste ore le piazze stanno contestando Assad e le dietrologie anche in questo caso si sprecano.

Forse l'ONU, invece di decidere di scendere in campo come parte in causa, avrebbe fatto meglio a mantenere il proprio ruolo di "super partes", perso dall’altra sera.

A chi saranno infatti imputabili in futuro gli attentati che è fin troppo prevedibile, rischiano di costellare il futuro di molti paesi occidentali?

Così come appare incredibile che una forza negativa come quella di Al Qaida rischi ora, con il suo essere stata alla finestra, di divenire addirittura possibile sponda futura del malcontento arabo, quando le decisione occidentali di queste ore, riveleranno la propria inefficacia e non esisteranno altri “luoghi” a cui appellarsi.

Stesso discorso vale per l'Iran, che così' incassa l'idea che i guerrafondai sono i soliti Usa e gli altri paesi della coalizione che oltretutto, a più di un osservatore orientale, sembrano oltretutto essersi prestati a “coprire” le debolezze degli Usa, già impegnati su due fronti militari.

Oltre tutto le armi non rappresentano mai una soluzione.
Peccato che ancora una volta il Premio Nobel Obama se ne sia scordato,finendo per agire come un Bush qualsiasi.

Non ultimo un commento sulla posizione italiana.

Viste le strette relazioni trascorse con tanto di "scuse" pagate a peso d'oro, cosa che non mi risulta essere stato fatto da nessun altro paese colonialista occidentale, forse sarebbe stato più onorevole mantenere una posizione di astensione.

L'interventismo che sta caratterizzando la posizione italiana, rischia di far emergere ancora una volta l'idea molto diffusa all'estero, della "banderuola" italiana, nazione che non sembra mai avere una posizione chiara e il coraggio delle proprie azioni, ma cerchi sempre il modo di uscirne vincente, con un atteggiamento sempre poco edificante: il voltafaccia.

Scordarsi gli incontri amichevoli con Gheddafi nell'era della rete non servirà. Infatti quando sui canali internazionali parlano in queste ore della storia politica di Gheddafi, senza ritegno vengono mostrate le immagini della tenda in Roma, il bacia mano del Primo Ministro  Italiano (e perchè poi un bacio?) e tutto ciò che da ieri si pensa di voler far credere non sia mai esistito.

L'astensione sarebbe stato un gran gesto di "forza", non per dimostrare che si intenda perdurare in questa relazione, ma di una posizione realmente concentrata in maniera prioritaria sulla questione sociale / umanitaria, visto che appare evidente che dopo le bombe seguiranno i profughi che sia che vinca o perda Gheddafi, avranno tutti una direzione: l’Italia!

Ora occorre vedere cosa questa guerra porterà veramente. Se ad una pace diffusa, come ci augura tutti o ad una lunga ed estenuante lotta di posizione o peggio l'inizio di un periodo bellico di “guerra sporca” permanente, dove l'atto terroristico rappresenterà il nuovo quotidiano per molti paesi del mediterraneo ed occidente, oggi in prima linea contro l'ignoto che questa azione potrebbe aver spalancato.

Non ci resta che incrociare le dita.

martedì 11 maggio 2010

Africapitalismo (e ruolo della Cina) contro la carità che uccide!!

Anche qua all'EXPO sta emergendo forte come Cina ed Africa abbiano da tempo stretto un "patto per lo sviluppo", attraverso l'implementazione di una strategia semplice e chiara: "basta alla carità, si alla creazione di economie reali".

Attraverso questo "semplice" approccio, la Cina sta quindi contribuendo a creare economie reali nei diversi paesi Africani dove agiscono le proprie imprese, un metodo molto diverso da quello che ha caratterizzato l'azione dell'Occidente per secoli.

Di seguito un articolo del Sole di Angolo Mingardi che "riassume" bene le idee di una delle economiste africane più influenti al mondo: Dambisa Moyo.

Alla sua autrice è valso un posto fra le cento personalità più influenti al mondo secondo «Time», entusiastici articoli su «Wired» e «Le Monde», l'ammirazione di Oprah Winfrey. Ma Dead Aid di Dambisa Moyo, che in Italia arriva per Rizzoli con l'abrasivo titolo La carità che uccide, è più di un saggio che ha scalato la bestseller list del «New York Times».

È un libro il cui tempo è finalmente venuto, è uscito al momento giusto dopo una gestazione collettiva di mezzo secolo. Mezzo secolo nel quale gli aiuti di stato sono apparsi all'Occidente il modo migliore per sgravarsi la coscienza, dopo il trauma della decolonizzazione.

La carità che uccide è debitore di una scuola di pensiero minoritaria nel mondo degli studi, e che tuttavia col tempo ha alimentato una prospettiva originale e solida. Il libro è non a caso dedicato alla memoria di Lord Bauer, che ne fu il punto pivotale. Per Bauer, il foreign aid era «rubare ai poveri dei paesi ricchi, per dare ai ricchi dei paesi poveri».seattle times

Gli aiuti in denaro verrebbero regolarmente stornati dalla classe politica locale a proprio vantaggio, perpetuando nel tempo un circolo vizioso, indebolendo lo sviluppo economico e impedendo il formarsi delle istituzioni fondamentali per lo sviluppo. L'afflusso di denaro dall'estero, erogato a fondo perduto, svilupperebbe una sorta di dipendenza.

L'élite locale si abituerebbe ad alimentarsene, concentrando sempre maggiori risorse in una burocrazia che soffoca il rachitico corpo di un'economia privata senza la forza di crescere. Il fatto che sia chi è al governo a gestire un simile "bottino" comporterebbe, a sua volta, che le persone più istruite e ambiziose, anziché dedicarsi a un percorso imprenditoriale, prendano la via di una carriera all'ombra dello stato. È per questo che i fondi stanziati dalle grandi agenzie internazionali continuano a non arrivare ai bisognosi per i quali sono pensati: l'aspettativa che ne arrivino altri basta a perpetuare una classe dirigente a vocazione parassitaria.

Le critiche ai meccanismi di erogazione degli aiuti allo sviluppo hanno nel tempo fatto breccia, portando le grandi istituzioni internazionali a sviluppare strumenti per vincolarli il più possibile al raggiungimento di obiettivi e a riforme istituzionali. Ma, nell'opinione pubblica occidentale, l'idea che aiutare i paesi in via di sviluppo voglia dire non fare affari con loro, non commerciare, non scambiare, ma dargli un'elemosina, è radicata. Così come lo è l'idea che gli unici attori con la potenza di fuoco necessaria a farlo con successo siano i governi.

I saggi di Bauer sono usciti troppo presto, quello di Dambisa Moyo è stato pubblicato al momento giusto. Dopo che le grandi parate del «Live Aid» (cui fa il verso il titolo originale) hanno generato clamore mediatico: produzione di appelli a mezzo di appelli. Soprattutto, dopo che il privato, e non il pubblico, ha dimostrato al giro di boa degli anni Duemila di sapere fare dello sradicamento della povertà un obiettivo.

Pensiamo al ruolo che stanno giocando realtà come la Fondazione Bill e Melinda Gates. O a Mohamed Yunus e alla sua Grameen Bank. Oppure a realtà meno conosciute, il microcredito online di «Kiva», o il venture capital sociale di imprenditori come il malesiano Kim Tan. Non è questione di corporate social responsibility.

È che avvicinando i paesi del mondo la globalizzazione ha scovato nuove opportunità di profitto. Alcune si trovano in quello che una volta si chiamava «Terzo mondo». E la possibilità di fare profitto attira investimenti.

Dambisa Moyo è nata a Lukasa, in Zambia, paese col quale mantiene un rapporto vivo e non di maniera. Ha preso un master a Harvard e un dottorato a Oxford. Dopo un breve passaggio in Banca mondiale, per quasi dieci anni ha lavorato come analista a Goldman Sachs: a seconda dei punti di vista, la più grande investment bank del mondo o il vero villain della crisi finanziaria.

Quel che conta, per Miss Moyo e i suoi lettori, è che l'esperienza in Goldman la porta a essere attenta non solo alla dimensione istituzionale, ma anche al giro del fumo degli affari. È per questo che, mentre biasima«sessant'anni,un miliardo di dollari di aiuti all'Africa e non molti risultati positivi da mostrare», Moyo guarda con interesse alla partita che in Africa sta giocando la Cina. Perché i cinesi non versano oboli, fanno investimenti.

«L'errore dell'Occidente è stato dare qualcosa in cambio di niente», ha scritto, mentre gli investitori cinesi pretendono di guadagnare, di fare profitto. È così che si appicca il fuoco della crescita economica, a vantaggio anche degli africani. Il punto di vista di Moyo è meno eccentrico di quanto si creda. Poche settimane fa il «Wall Street Journal» definiva il ruandese Paul Kagame «a supply-sider in East Africa », alla stregua di un consigliere di Reagan. Il presidente ugandese Yoweri Museveni ha chiesto in più di un'occasione «trade not aid»: opportunità di scambio, rimozione delle barriere doganali, non «aiuti» in moneta.

Il presidente della Camera della Costa d'Avorio, Mamadou Koulibaly, conduce una difficile battaglia per sviluppare nel suo paese il catasto, in modo da garantire la certezza dei titoli di proprietà, primo mattone di un'economia di mercato. Ecco che Dambisa Moyo, quando riflette sulla performance dei mercati obbligazionari africani e sullo sviluppo del private equity, quando spiega che ridurre le barriere al commercio inter-africane è un passo essenziale per creare opportunità per tutti, quando si preoccupa per quella statolatria che è il lascito avvelenato degli aiuti, non è solo un'anticonformista di successo,un animale da talk show, una provocatrice che sa vendere libri. È la profetessa di un'idea il cui tempo è venuto. L'afrocapitalismo
!

giovedì 23 luglio 2009

Corrotti da morire! La lezione Cinese contro l'emergenza Corruzione!

In Cina la corruzione è una cosa seria.

Sia perché è un serio problema, ma soprattutto, perché quando scoperti, non esistono “sconti”!.

L’altro giorno, la Beijing No 2 Intermediate People's Court, ha condannato a morte, con una sospensione della pena per due anni, Chen Tonghai, l’ex presidente delle SINOPEC, la più grande azienda petrolifera del paese, al 9° posto nella Fortune Global 500 delle principali aziende mondiali.

I reati che gli sono stati contestati sono di corruzione e l’appropriazione di 193 Milion di Yuan ( oltre 29 Milioni di dollari).

Come previsto dalla procedure cinesi, ora Chen ha tempo 10 giorni per ricorrere in appello.

La storia di Chen Tonghai è comunque esemplare, per comprendere come in Cina, l’eterna guerra alla corruzione nel paese, non risparmi nessuno.

Prima di tutto colpisce proprio la sentenza, che cita testualmente “la corte è stata indulgente, nonostante l'enorme quantità di denaro che Chen ha preso, perché ha avuto un "buon comportamento" nel confessare i propri crimini.”

In sostanza, Chen, oltre a restituire i soldi ricevuti dagli atti di corruzione, ha anche fornito i nomi dei funzionari corrotti.

Qualcosa che, almeno in parte, riabilita Chen e gli apre le porte alla possibilità, durante i due anni di sospensione della pena di morte, di commutarla in carcere a vita o trasformarsi in 20 anni o meno di carcere, se la corte riterrà che si sia realmente pentito.

Nato nel 1948 a Shanghai, figlio di Chen Weida, un rivoluzionario e funzionario di Stato d’alto profilo, laureatosi nel 1976 alla Northeast Petroleum University, ha poi passato i suoi successivi 10 anni sui campi petroliferi di Daqing.

Successivamente, la carriera di Chen Tonghai è stato un continuo crescendo, prima sindaco della città di Ningbo, nella provincia dello Zhejiang, poi nel 1994, Commissario nella Commissione di Stato per la Pianificazione, fino al suo ingresso nella Sinopec nel 1998.

Nel 2006 Chen diventa Presidente della Sinopec, incarico dal quale però, nel Giugno del 2007, si dimette per “motivi personali”. Successivamente, nell’ottobre dello stesso anno, viene incarcerato per i crimini per cui è stato condannato.

Una sporca storia, alla quale i vari media cinesi stanno aggiungendo continui particolari, anche piccanti, visto che Chen Tonghai, non solo ha preso un sacco di soldi attraverso diversi atti corruttivi, ma ha anche consentito alla propria amante, di ottenere rilevanti vantaggi, utilizzando in maniera impropria il proprio potere acquisito.

Infatti la sua amante, una certa Li Wei, avrebbe beneficiato di un enorme progetto di una raffineria in costruzione nello Shandong, per poter comprare a costi ribassati, terreni per la sua società immobiliare con sede in Qingdao

Ma non solo. I media cinesi, sottolineano anche il fatto di come Chen abbia anche “condiviso” la propria amante, il termine usato è proprio questo, con l’ex Segretario di Partito di Qingdao Du Shicheng, con il quale aveva di fatto creato un’alleanza politica e di protezione ai propri affari.

Ad aggravare la posizione di Chen, sia agli occhi dei cinesi che a quelli dei giudici, il fatto che fosse un politico e che quindi “abbia agito in contrasto con le regole morali del partito”, qualcosa che per i cinesi risulta al quanto ripugnante.

Insomma uno sporco affare di sesso e corruzione, in una guerra senza quartiere per quella che i cinesi non esitano a definire una “piaga nazionale”.

Dal 2003 ad oggi oltre 68.000 ufficiali governativi, sono stati giudicati per atti di corruzione e la polizia cinese ha calcolato che i reati economici più gravi di solo 500 di essi, hanno sottratto qualcosa come 70 Miliardi di Yuan ( Circa 9 Miliardi di Dollari).

Il Governo di continuo ha “aggiornato” le procedure e le leggi per combatterla, tanto che ora è illegale ricevere qualsivoglia regalo o favoritismi, anche di pochi dollari, sia per chi ricopra qualunque tipo di incarico pubblico, così come anche ai componenti della sua famiglia o parenti.

Una questione morale, una guerra dichiarata, tanto che la corte che giudicava Chen, nella sentenza, ha dichiarato di “augurarsi che le attese riforme statali siano approvate rapidamente, così da consentire ancora una migliore supervisione e”, continua la corte,” di poter estirpare la corruzione dalla sue radici!”

Li Shuguang, esperto in materia di questioni Statali, della Università degli Studi di Scienze Politiche e Legge, ha dichiarato come “le leggi vigenti debbano essere modificate per consentire severa punizione e prevenire il ripetersi di attività criminose a danno dei beni di Stato”.

Ma non solo, “quanto accaduto nel caso di Madoff negli USA, di multiple punizioni per i reati economici, dovrebbe essere recepito nelle future modifiche di legge”.

Un discorso di grande attualità, anche alla luce di quanto sottolineato dai leaders del G8 a l’Aquila, che hanno indicato nella lotta alla corruzione, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, la strada per la loro naturale e rigogliosa crescita futura.

In questa guerra, la Cina sta cercando di fare la propria parte e si è messa in prima linea, tanto che dal 2007, nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (UNCAC), ha promosso la creazione dell’Associazione Internazionale delle Autorità anti-corruzione (IAACA), strumento operativo proprio per combattere la corruzione nel mondo e a cui hanno aderito 137 paesi e 12 organizzazioni internazionali.

Quindi mentre gli Americani hanno insistito sotto la Presidenza Bush nel definire la guerra al terrorismo la madre di tutte le guerre, da tempo i cinesi pensano che per vedere un crescente benessere generalizzato, occorre sconfiggere la corruzione in ogni dove essa si annidi.

Questo approccio appare molto credibile, quando si analizzano le cause principali che mantengono all’attuale livello di povertà le popolazioni dell’Africa, Asia e del Sud America.

La corruzione governativa in quei paesi, impedisce che la ricchezza presente, spesso sotto forma di materie prime e risorse naturali, rappresenti realmente un bene comune.

Detto questo, la corruzione ha quindi sicuramente un impatto quotidiano ben superiore a quello legato al terrorismo mondiale, quando ogni 5 secondi una persona muore di fame e quando più di 1 miliardo di persone non hanno accesso diretto all’acqua.

Quindi forse è giunto il momento di soffermarsi a riflettere sulla pragmatica proposta contenuta nel messaggio cinese di “lotta alla corruzione senza oltranza”.

Una proposta che nasce dall’esperienza e che ha consentito alla Cina (ricordiamoci di 1 miliardo e 300 milioni di persone!!) di passare da una situazione di indigenza, alla ben diversa situazione attuale, dove ad ogni cinese è garantito acqua e cibo.

E noi in Italia, quanti Miliardi di Euro risparmieremmo se affrontassimo seriamente la questione della corruzione, trasformandola in una vera e propria emergenza nazionale con la stessa determinazione dimostrata fin qui dai Cinesi?

lunedì 23 marzo 2009

L'Acqua un diritto per pochi!!!

Tante volte non ci facciamo caso alle cose e che come la nostra vita sarebbe profondamente diversa (e peggiore) se alcune di queste venissero a mancare.

Nelle coscienze occidentali sembra crescere la sensibilità del necessario e del superfluo, ma sembra che manchi ancora la consapevolezza di cosa voglia dire veramente necessario.

L'ONU afferma che nel 2030 (domani) metà della popolazione sarà assetata.

Una cifra su tutte: 900 bambini al giorno muoiono per mancanza d'acqua!!


E' il caso di fare veramente qualcosa, visto che non serve andare in Africa per avere problemi di accesso all'acqua.

Ma non solo. Molta dell'acqua si inquina (trasformandola in un killer) per produrre beni e prodotti che fanno parte del superfluo di molti di noi e delle nostre economie.

Cosa fare? Sicuramente cercando di trovare soluzioni a problemi che oggi sembrano dall'altra parte del globo ma, visto il rapporto ONU, domani finiranno per essere alle nostre porte di casa.

Anche perchè la "stabilità" sociale dell'intero pianeta sarà messa in crisi da possibili conflitti militari, proprio per il controllo dell'acqua.

Un esempio? Beh Il Tibet. Dato che il suo altopiano produce TUTTA l'acqua potabile della Cina (e di molti altri paesi dell'area), difficile pensare che i Cinesi intentando cederne il controllo a chichessia, proprio perchè in gioco c'è, tra l'altro, il controllo dell'accesso all'"oro blu" e così garantire il futuro stesso del paese.

Vogliamo ancora parlare di Dalai Lama e di indipendenza del Tibet?? Bene, solo questo esempio dovrebbe "aprire gli occhi" e far comprendere come quella che si sta giocando non è una partita di Risiko e come le dinamiche del mondo e delle nazioni, sono e saranno guidate dalle necessità primarie. 

L'acqua prima di tutto.

Per cui, garantire il diritto a tutti di avere la propria acqua quotidiana è fondamentale ma ciò è tutt'altro che semplice e comporta uno sforzo tremendo che continuando a rimandare, un giorno o l'altro presenterà il suo terribile conto.  

lunedì 5 novembre 2007

Cina – Africa: Un patto finanziario

Da decenni, tra Cina ed Africa, esiste una mutua cooperazione, fatta di supporti e tecnologie cinesi, in cambio di materie prime ed energia dai diversi paesi Africani.

Ma non solo, la Cina è diventata il modello di sviluppo “copiabile”, al quale si stanno ispirando molti paesi africani, per uscire dalla attuale situazione di sottosviluppo in cui versano.

Questa cooperazione nei giorni scorsi ha fatto un decisivo salto di qualità: tra Cina ed Africa ora esiste un patto strategico - finanziario.

Venerdì è stata infatti annunciata l’acquisizione da parte della ICBC (Industrial and Commercial Bank of China), la più grande banca al mondo per capitalizzazione (319 Miliardi di dollari), del 20% della Standard Bank Group Limited, la più grande banca dell’Africa per valore di Assets (156 Miliardi di dollari).

Con un investimento di 5, 46 Miliardi di dollari, il più grande mai fatto fuori dai confini nazionali da una impresa cinese e che per il Sud Africa rappresenta il più grande investimento straniero nel paese, oltre all’ingresso nel capitale della banca sudafricana, è stato sottoscritto un accordo strategico tra le due parti, i cui dettagli non sono stati divulgati.

E’ stato soltanto reso noto che l’accordo prevede investimenti per oltre 1 miliardo di dollari in materie prime ed energia, principalmente nell’Africa Centrale, consolidando così l’azione svolta fino ad ora da parte Cinese.

Con questa operazione i cinese ottengono quindi un doppio risultato: per ICBC rappresenta un investimento che consente di aumetare il peso delle operazioni internazionali, dall’attuale 3% verso l’obbiettivo prefissato del 10%, contemporaneamente rappresenta un passo importantante a supporto della strategia di espansione economica delle imprese cinesi sul continente africano.

Infatti come definito dallo stesso Jiang Jianqing, presidente della ICBC, questa operazione rappresenta la “strategica stretta di mano” tra Cina ed Africa, visto che il più grande azionista della Standard Bank è la PublicInvestmentCorp (13,9%), l’azienda di Stato che gestisce gli investimenti pubblici Sud Africani.

L’operazione annunciata venerdi, era stata preceduta da un intenso scambio diplomatico tra i due paesi, sfociato lo scorso 6 Febbraio, con la visita in Sud Africa dello stesso presidente cinese Hu Jintao, viaggio nel quale i Cinesi avevano offerto ulteriori ingenti investimenti nel quadro del programma sud africano denominato ASGISA (Accelerated and Shared Growth Initiative of South Africa).

I cinesi, memori anche dell’esperienza negativa degli anni ’90 del Giappone, da un lato sono molto soddisfatti di questa acquisizione, in linea con gli obbiettivi di aumento delle operazioni overseas ed espansione del “sistema cinese”, dove le banche giocano un ruolo decisivo, ma dall’altro invitano alla prudenza, per quanto riguada gli investimenti all’estero.

In particolare per quanto rigurda l’Africa, viste le “questioni ambientali” che possono rendere estremamente periocolose azioni di tipo finanziario visti i rischi politici, cambi di regime locale, regolamentazioni o legislazioni “imperfette”, barriere locali, tutti elementi nuovi per i cinesi in espansione.

La scelta cinese di investire proprio in Sud Africa, è infatti legata al fatto che il paese è considerato tra quelli più sviluppati e con il migliore sistema legislativo, in grado quindi di offrire le adeguate garanzie per un investimento di questa portata ed essere la base d’appoggio per le futute espansioni cinesi, sul continente africano.

martedì 26 giugno 2007

L'Africa? Sarà la CINA a farla....

Questo è il titolo della interessante intervista sul Sole 24 ore del 15 Giugno, a Li Ruogu, Presidente della Import -Export Bank of China...
Che questo sia il futuro dell'Africa lo si era capito fin dal dicembre scorso...leggi Forum AFRICA-CHINA.. ora la riprova, ben riassunta con forza nle messaggio "ufficiale"cinese e nella semplice dirompente frase riportata sopra...


Google

lunedì 18 dicembre 2006

Forum Cina-Africa e povertà: paesi poveri uniti verso la nuova ricchezza

La Cina non finisce mai di stupire, visto che anche su una questione fondamentale quale quella della povertà e la questione africana, è l’artefice di novità significative, forse decisive.

Queste novità sono al centro dei colloqui in corso tra la Cina e i paesi africani nel 3° forum China-Africa apertosi oggi a Beijing.

Dopo decenni di fallimenti internazionali per cercare di risolvere il problema della povertà nel mondo( spesso più un utile strumento di marketing) e l’ormai conclamata incapacità dei paesi sviluppati di ridistribuire la propria ricchezza, ora è ufficiale: i paesi poveri faranno da sè.

Ma cosa è successo affinché questo fatto rivoluzionario potesse accadere?

Prima di tutto dal 11 settembre 2001 i Paesi sviluppati stanno concentrando immense risorse più sulla emergenza legata alla guerra al terrorismo che investirle per migliorare la qualità della vita per miliardi di persone nel resto del mondo.

Secondariamente negli stessi anni, la Cina è riuscita a diventare l'emblema, il testimonial di successo che dimostra che cambiare la propria condizione di povertà è possibile.

L'esperienza della Cina e di altri paesi dell'area Asiatica come ad esempio il Vietnam, stanno dando ai paesi poveri la possibilità di recuperare l'orgoglio della propria condizione e attraverso una sempre maggiore cooperazione tra loro, consente l’accesso alle competenze e alle tecnologie al momento solo a disposizione dei paesi sviluppati.

Ma in particolare la Cina è diventata il partner in grado di fare da volano ai paesi in via di sviluppo, esattamente come per noi lo fu l’America dell’immediato dopoguerra.

Tutto ciò lo troviamo esplicitato in un passaggio del discorso del premier cinese Wen Jiabao che nella cerimonia di apertura del recente Summit China - ASEAN dichiarò: "le emergenze della Cina sono le opportunità per tutto il mondo".

E per capire quanto questo sia vero nella soluzione della questione africana, bastano le parole dei leaders presenti al forum che all’unisono affermano: “Con la Cina si lavora da tempo in una vera e mutua cooperazione. Non come con i paesi sviluppati, ad una sola direzione e in maniera unilaterale”.

L’incontro che si è aperto oggi a Beijing è quindi un forum tra pari, tutti orientati a collaborare per un reciproco futuro migliore

In questo forum, emerge ancora una volta con forza lo stile cinese nelle cooperazioni internazionali, un approccio ben diverso da quello fin qui dimostrato dai paesi sviluppati, una lezione di etica e comprensione profonda della reale situazione e dei problemi che meriterebbe un maggiore approfondimento da parte dei paesi sviluppati.

I cinesi, per quanto stiano diventando rapidamente la prima economia mondiali, non intendono scordarsi della propria storia e dei problemi che hanno dovuto risolvere. Nei fatti stanno quindi mettendo tutto ciò a disposizione degli altri paesi, per cercare di contribuire ad un maggiore benessere distribuito.

Il fenomeno che più assomiglia a quanto i cinesi stanno quotidianamente realizzando con i paesi in via di sviluppo si chiama microcredito che nelle discussioni in corso a Beijing, raggiunge dimensioni di accordi tra nazioni.

La cosa che colpisce del forum di Beijing sono i visi dei leaders africani in arrivo; sorridenti, orgogliosi e sereni, coscienti che stanno gettando le basi per un futuro autoderminato, ben lontano dalle richieste di aiuto, quasi sempre disattese, inviate negli ultimi decenni alla comunità internazionale.

Questo evento ridà infatti agli africani quella dignità che le dominazioni coloniali prima e l’assistenzialismo economico poi, avevano tolto, contribuendo concretamente a girare pagina e reclamare il diritto di costruirsi il proprio futuro.

La forza dei cinesi è quella di essere il partners leale e concreto di cui i paesi africani avevano bisogno e con il quale condividere il desiderio e il sogno in un futuro migliore.

Per capire la portata dei mutamenti che sconvolgeranno l’Africa prossima ventura, basta vedere i vari progetti di cooperazione al centro delle discussioni, come quello per le Mauricius viste come il porto di ingresso (Hub) per la Cina verso il continente africano.

Ma in questi anni i cinesi si sono spinti oltre, donando ai paesi africani la medicina contro la malaria, basata su principi attivi della tradizione cinese.

Dato che la malaria è una delle principali cause di morte in Africa, si capisce la portata degli interventi fin qui realizzati dai cinesi.

E noi cosa stiamo facendo oltre che continuare a parlarne o letteralmente saccheggiando i principi attivi delle piante africane, brevettandoli, per poi venderli come nostri?

In queste mutate condizioni generali e grazie al tutoraggio della Cina, i paesi in via di sviluppo stanno andando rapidamente verso la propria nuova futura ricchezza.

Non dovremo quindi stupirci che sempre più in futuro questi paesi faranno sempre minore accesso ai progetti di cooperazione internazionali.

Da soli, stanno realizzando la ricetta che li porterà verso un nuovo diverso futuro, creandosi quella economia reale basata sugli scambi commerciali, in grado di sostenere la futura crescita e di accelerare il processo si uscita dalla condizione di povertà. Il loro schema di riferimento è quanto accaduto in Cina negli ultimi decenni.

Quindi i paesi in via di sviluppo, parafrasando il motto"Chi fa da se fa per tre", rendono ancora più evidente il fallimento della politica dei paesi sviluppati ed evidenzia la miopia dei nostri politici, sicuri che la storia non presenterà un giorno il proprio conto finale.

Non dobbiamo infatti dimenticare che attualmente sono alle porte crisi ancora allo stato latente ma molto rischiose, quale quella della prevista esplosione della bolla immobiliare americana che porterebbe devastanti effetti a catena nei nostri paesi, così come non possiamo dimenticarci della futura competizione strategica nell'accesso alle risorse energetiche e naturali, spesso proprio patrimonio dei paesi in via di sviluppo e dell’Africa appunto.

C’è da essere preoccupati, visto come ci siamo comportati fino ad ora e negli ultimi 200 anni.

Risulterà infatti difficile aspettarsi allora dagli attuali paesi in via di sviluppo, qualunque tipo di comprensione alle nostre future emergenze.