giovedì 13 novembre 2008

Tibet: tutto da rifare

Onestamente si sperava in qualcosa di diverso. Un pelo di delusione traspare per come sono finiti gli incontri tra i rappresentanti del Governo Cinese e rappresentanti del Dalai Lama.

Il muro contro muro, che ancora una volta ha portato alla rottura delle negoziazioni, appare qualcosa su cui però vale la pena di una riflessione.

Chi crede che il Tibet debba essere uno stato indipendente e cerca appoggi internazionali affinché si facciano pressioni sulla Cina in tal senso, sta compromettendo di fatto la buona riuscita di qualsiasi trattativa futura.

Come sottolineato da Zhu Weiqun, vice presidente della Regione Autonoma del Tibet e da Du Qinglin, vice presidente NCCPPC che hanno incontrato i rappresentanti del Dalai Lama, Lodi Gyari and Kelsang Gyaltsen, questo punto non è infatti negoziabile.

Errate si sono rivelate anche le valutazioni di una questione Tibet utilizzabile quale strumento di pressione sulla Cina, stile Guerra Fredda.

Al contrario, occorre tornare velocemente ad un dialogo costruttivo, senza i tendenziosi pregiudizi che hanno caratterizzato le negoziazioni in questi ultimi mesi.

Il Dalai Lama ha il diritto di affermare ciò che ritiene giusto, ma forse i suoi collaboratori dovrebbero aggiornare le proprie tecniche diplomatiche, visti anche i drammatici fatti che stanno sconvolgendo il mondo.

A causa della crisi di questi giorni, i diversi paesi del mondo hanno bisogno di sinergia e positiva collaborazione, per poter rispondere tutti assieme alla crisi finanziaria attuale che rischia di mettere in serio pericolo la stabilità stessa del pianeta.

E la Cina, a partire per gli stessi Usa, rappresenta un potenziale salvagente in grado di bilanciare la crisi, mettendo a disposizione della comunità internazionale, la sua enorme potenzialità economica e finanziaria.

La questione tibetana non può essere quindi usata tutti i giorni per gettare discredito sui cinesi, che poi, giorno dopo giorno, contribuisce alla creazione di un muro “razzista”, dove il cinese è il cattivo o peggio un massacratore di povera gente.

Tale approccio assomiglia troppo allo stereotipo che fu usato nella fine dell’800, per spiegare ai coloni americani che uccidere gli indiani e portargli via le terre per tutelare gli interessi delle grandi compagnie e del nascente stato americano, fosse un’azione giusta.

Chi non ricorda nei film l’“arrivo dei nostri”, intendendo per nostri, chi può uccidere quello che veniva considerato un mostro da eliminare.

La Cina non è un mostro, come troppe volte sui media occidentali si cerca di voler fare passare.

Ma non solo. In tutti i paesi del mondo, Religione e Stato stanno seguendo due strade diverse, per cui, a parte alcune situazioni fondamentaliste islamiche, la laicità dello stato risulta essere il carattere predominante di tutti i paesi, siano essi occidentali che orientali.

Appare quindi del tutto fuori luogo ed antistorico il fatto che la questione Tibetana venga gestita dallo stesso Dalai Lama, di fatto il capo spirituale di una religione, quando tale questione è essenzialmente di carattere politico.

Infatti, relativamente alla questione religiosa, come riaffermato dai cinesi anche nei recenti incontri, non ci sono particolari problemi, tanto che al capo spirituale del buddismo è stato più volte offerto di rientrare in patria per esercitare la propria religiosità.

Ciò che invece non funziona ed è il punto che i cinesi ritengono non trattabile, è che lo stesso capo spirituale di una religione, intenda anche perseguire una logica politica, sintetizzabile in una “indipendenza del Tibet”.

Parlando con molti occidentali, questa distinzione tra Religione e Politica sulla questione Tibetana, appare di difficile comprensione, visto che i media occidentali tendono a farla passare come un fatto unitario.

E’ un po’ come confermare l’idea fondamentalistica che stanno perseguendo alcuni stati Islamici, idea ritenuta dai più pericolosa sul piano dei confronti tra nazioni, ma soprattutto poco funzionale allo sviluppo reale del paese.

Le prove di questi dubbi, sono riscontrabili nello stesso Tibet a gestione religiosa, come era prima dell’arrivo dei cinesi e dove la povertà era terribilmente diffusa e a livelli incredibili, nonostante il tutto fosse sotto la totale sovranità dei predecessori del Dalai Lama.

Questo fatto, provabile storicamente in maniera oggettiva, non depone a favore di una restaurazione dello stato Tibetano, visto anche dalla parte degli stessi Tibetani che, oltre che cercare di trasformare il proprio paese in semplice attrazione turistica, poco possono sul piano industriale, vista anche la conformazione stessa del paese.

L’aspetto religioso è però l’elemento che ha fatto “breccia” nelle menti di molti benpensanti occidentali, come nel caso di molti divi di Hollywood, che però paradossalmente, mentre a casa propria non tollerano l’ingerenza della religione nelle questione di stato, pensano che ciò invece sia giusto per i “poveri” tibetani.

Per cercare una soluzione al problema Tibetano, occorre quindi che la questione Religiosa e Politica si muovano su due terreni negoziali distinti.

Se seguita con coerenza, la questione Religiosa appare di semplice soluzione, visto che già in diverse sedi, i cinesi hanno ribadito la loro disponibilità ad accogliere il Dalai Lama senza pregiudizio alcuno.

La questione politica necessita invece di trovare un accordo ben diverso, più simile ad altre questioni come Hong Kong, Macao, dove di fatto, salvando il principio di integrità dello stato Cinese ( non trattabile), si possono introdurre nuove modalità di autonomia, migliori di quelle attuali ed offrire maggiore autodeterminazione alla minoranza etnica presente nel paese.

A dimostrazione di ciò, le negoziazioni con gli intermediari del Dalai Lama si sono infatti interrotte quando i cinesi hanno compreso che essi, non avessero alcuna intenzione di risolvere la questione inerente il Dalai Lama, ma al contrario, volessero porre sul tavolo anche la questione politica dell’Indipendenza del Tibet.
Nella sostanza, porre contemporaneamente sul piano negoziale le due questioni, si è dimostrato ancora una volta una cattiva idea e visti i risultati, ciò dovrebbe far riflettere lo stesso Dalai Lama, per cercare in futuro di fare dei passi più costruttivi di quelli fatti fino ad ora.

Soprattutto, evitare di continuare ad usare la strumentalizzazione della questione religiosa come leva in grado di “forzare” una soluzione politica contro gli interessi strategici nazionali cinesi.

Questo approccio continuerà anche in futuro ad indisporre i cinesi, impedendo di fatto qualsiasi ulteriore passo di avvicinamento che possa ricomporre una questione che si sta trascinando da oltre 50 anni.