Tibet:Situazione delicata. Prevalga il buon senso.
Nel giorno della rielezione di Hu Jintao alla carica di Presidente Cinese e di tutti i leaders del Governo Cinese, dal Tibet giungono le notizie dei disordini di piazza e incominciano a rincorrersi le “versioni” su quanto accaduto realmente.
Un fatto è certo, il Tibet è considerato dal Governo cinese in carica parte integrante della Cina, ergo qualsiasi tentativo di “staccarlo” verrà gestito come atto di terrorismo e di attacco alla unità dello stato.
Il Dalai Lama per il governo cinese è un sovversivo e il presunto governo in esilio tibetano non può essere riconosciuto, in quanto esiste solo quello in carica, che già gestisce la Regione Autonoma del Tibet.
Date queste premesse si vede come la questione del Tibet rischia di essere come il paradosso del “cammello attraverso la cruna dell’ago”.
I monaci buddisti, appare ora chiaro, forti anche del “precedente” della vicina Birmania, stanno facendo tutto il possibile per utilizzare la “Leva” delle Olimpiadi e sovvertire una situazione da decenni in via di normalizzazione, cercando di ottenere l’intervento della comunità internazionale.
La questione è però molto più delicata di quello che appare, visto il sopraggiungere di un secondo pericoloso appuntamento: il referendum del 20 marzo per l’adesione di Taiwan all’ONU, in sintesi, il riconoscimento della propria indipendenza dalla Cina da parte della comunità internazionale, un'altra “mina vagante” per il governo cinese.
Detto questo è chiaro che i cinesi non possano considerare i manifestanti come dei semplici pacifici protestanti, ma dei sovversivi e basta anche se dei semplici monaci.
Inoltre il Dalai Lama, da giorni sta agendo da “capo popolo”, fornendo la propria sponda internazionale per l’azione di queste ore che sta cercando di arrivare alla indipendenza del Tibet.
Dalle premesse sembra quindi non ci sarà spazio per alcuna mediazione, oltre alla promessa “clemenza” di queste ore, in grado di evitare l’estendersi degli scontri.
Appare altrettanto chiaro che per quanti intendono cercare l’indipendenza del Tibet quella attuale è l’ultima carta da giocare, sperando nell’effetto Olimpiadi con il crescere della tensione nell’area.
Ma qua bisogna fare i conti con la storia. I cinesi non ragionano su tempi brevi.
Sicuramente i fatti Tibetani potranno anche sfociare in “guerra aperta”, ma mai il governo cinese riconoscerà il diritto di alcun intervento internazionale, visto essere considerata solo una questione interna.
Bisogna fare i conti con questo punto di vista e pertanto non “tifare” alcuna sconsiderata protesta di piazza che cerchi in “tempi rapidi” alcuna soluzione pro-indipendenza.
Il ragionamento va fatto su tempi più lunghi, con ad esempio la proposta di una ancora maggiore autonomia, nello spirito di “un unico stato, due sistemi”, che ha già dato ottimi risultati sia ad Hong Kong che Macao e che potrebbe essere la strada per la soluzione anche della pericolosa situazione di Taiwan.
Pur comprendendo la posizione dei Tibetani che non si riconoscono nel governo Cinese, occorre però vedere le cose con la giusta prospettiva, invitando a non confondere la politica con la religione.
I cinesi hanno poche ma chiare posizioni in merito e se da un lato sono disposti a cercare di trovare una pacifica convivenza nella regione tra le diverse etnie, dall’altra non sono disposti a mescolare le aspirazioni politiche di qualcuno con quelle religiose o etniche.
Il Tibet storicamente è stato conquistato dalla Cina negli anni post bellici.
Adesso bisogna solo sperare che, Dalai Lama in testa, si eviti lo scontro frontale, cercando invece quel dialogo, affinché prevalga la via di una collaborazione e di una pacifica convivenza futura.
Altre aspirazioni, rischiano di portare solo pericolosi contraccolpi che difficilmente rimarranno circoscritti alle sole “alte” lontane terre tibetane.
Un fatto è certo, il Tibet è considerato dal Governo cinese in carica parte integrante della Cina, ergo qualsiasi tentativo di “staccarlo” verrà gestito come atto di terrorismo e di attacco alla unità dello stato.
Il Dalai Lama per il governo cinese è un sovversivo e il presunto governo in esilio tibetano non può essere riconosciuto, in quanto esiste solo quello in carica, che già gestisce la Regione Autonoma del Tibet.
Date queste premesse si vede come la questione del Tibet rischia di essere come il paradosso del “cammello attraverso la cruna dell’ago”.
I monaci buddisti, appare ora chiaro, forti anche del “precedente” della vicina Birmania, stanno facendo tutto il possibile per utilizzare la “Leva” delle Olimpiadi e sovvertire una situazione da decenni in via di normalizzazione, cercando di ottenere l’intervento della comunità internazionale.
La questione è però molto più delicata di quello che appare, visto il sopraggiungere di un secondo pericoloso appuntamento: il referendum del 20 marzo per l’adesione di Taiwan all’ONU, in sintesi, il riconoscimento della propria indipendenza dalla Cina da parte della comunità internazionale, un'altra “mina vagante” per il governo cinese.
Detto questo è chiaro che i cinesi non possano considerare i manifestanti come dei semplici pacifici protestanti, ma dei sovversivi e basta anche se dei semplici monaci.
Inoltre il Dalai Lama, da giorni sta agendo da “capo popolo”, fornendo la propria sponda internazionale per l’azione di queste ore che sta cercando di arrivare alla indipendenza del Tibet.
Dalle premesse sembra quindi non ci sarà spazio per alcuna mediazione, oltre alla promessa “clemenza” di queste ore, in grado di evitare l’estendersi degli scontri.
Appare altrettanto chiaro che per quanti intendono cercare l’indipendenza del Tibet quella attuale è l’ultima carta da giocare, sperando nell’effetto Olimpiadi con il crescere della tensione nell’area.
Ma qua bisogna fare i conti con la storia. I cinesi non ragionano su tempi brevi.
Sicuramente i fatti Tibetani potranno anche sfociare in “guerra aperta”, ma mai il governo cinese riconoscerà il diritto di alcun intervento internazionale, visto essere considerata solo una questione interna.
Bisogna fare i conti con questo punto di vista e pertanto non “tifare” alcuna sconsiderata protesta di piazza che cerchi in “tempi rapidi” alcuna soluzione pro-indipendenza.
Il ragionamento va fatto su tempi più lunghi, con ad esempio la proposta di una ancora maggiore autonomia, nello spirito di “un unico stato, due sistemi”, che ha già dato ottimi risultati sia ad Hong Kong che Macao e che potrebbe essere la strada per la soluzione anche della pericolosa situazione di Taiwan.
Pur comprendendo la posizione dei Tibetani che non si riconoscono nel governo Cinese, occorre però vedere le cose con la giusta prospettiva, invitando a non confondere la politica con la religione.
I cinesi hanno poche ma chiare posizioni in merito e se da un lato sono disposti a cercare di trovare una pacifica convivenza nella regione tra le diverse etnie, dall’altra non sono disposti a mescolare le aspirazioni politiche di qualcuno con quelle religiose o etniche.
Il Tibet storicamente è stato conquistato dalla Cina negli anni post bellici.
Adesso bisogna solo sperare che, Dalai Lama in testa, si eviti lo scontro frontale, cercando invece quel dialogo, affinché prevalga la via di una collaborazione e di una pacifica convivenza futura.
Altre aspirazioni, rischiano di portare solo pericolosi contraccolpi che difficilmente rimarranno circoscritti alle sole “alte” lontane terre tibetane.