Agroalimentare/ Flop delle fiere italiane in Cina. Servono nuove strategie
(pubblicato su Affari Italiani il 8 Dicembre 2006 e su Agenzia per la Cina)
Dal 23 al 25 Novembre scorso, a Shanghai si è tenuta l’8° edizione del Vinitaly – Cibus, manifestazione presentata come la più grande fiera Italiana sul tema in Cina.
Come è andata? Un totale fallimento.
In uno paese dove le fiere si pesano per le migliaia operatori presenti a ciascuna di esse, il Vinitaly di Shanghai potrà essere ricordata per la sostanziale assenza degli operatori di settore e dei responsabili dei ristoranti o wine-shop cinesi, non certo compensabili dalla presenza di alcuni intenditori cinesi a caccia del vino pregiato o dai gruppi di semplici curiosi, in veste del tutto personale e a scrocco (abitudine molto cinese in tema culinario!!), che passavano da un assaggio all’altro nei diversi stands.
Presenze ridotte a poche centinaia di persone in tutto, ben poca cosa per una fiera che intendeva essere la punta di diamante per penetrare il mercato cinese fatto da 1 miliardo 300 milioni di persone!!!.
Le ragioni di questo ulteriore passo falso della nostra diplomazia commerciale sono da ricercarsi nel perseverare negli errori di base, nel continuare ad organizzare fiere di questo tipo, che anche se organizzate per i prossimi 100 anni, continueranno ad avere lo scarso riscontro attuale sia in termini di visibilità che di ricadute commerciali.
Chi ha organizzato Vinitaly si comporta come se il mercato cinese fosse come gli altri mercati, dove la cultura del vino è comunque da tempo presente e radicata (Giappone e Corea ad esempio).
La Cina non ha una reale cultura in tal senso e va educata dalla base, ma per farlo non basta un evento espositivo.
Servono tutta una serie di eventi sul territorio per portare il piacere del gusto, del bere il vino italiano, direttamente nelle case dei cinesi e non sperare, come ora, che i cinesi vengano a cercare il gusto e il vino italiano.
Qui emerge tutta la fragilità della nostra diplomazia commerciale, incapace di andare oltre eventi spot e di facciata, senza poi dare seguito ad essi nei mesi successivi con azioni tangibili sul piano commerciale e di business.
La buona volontà NON basta, occorrono capitali economici ed umani per entrare in contatto con i cinesi quotidianamente, per fare conquistare all’agro-alimentare italiano lo spazio che merita nelle preferenze del cinese medio.
Occorre pianificare azioni di comunicazione più profonde e quotidiane, usando tutti i mezzi di informazione possibili, in modo da presentare il “sistema” del nostro gusto non come una serie di marchi, ma come un vero e proprio stile di vita; organizzare campagne di diverso stampo, visto che il modello fieristico / espositivo tradizionale non rappresenta da solo il modo migliore per entrare, penetrare e preparare i cinesi a diventare fan sfegatati del nostro gusto, dei nostri prodotti tradizionali, della nostra cultura.
E’ importante lavorare sul piano dell’integrazione dei gusti, facendo “evolvere” la nostra cucina e i nostri prodotti in leccornie ricercate dal cinese medio.
Un elemento fondamentale è rendersi conto che il prezzo rappresenta il parametro determinante che oggi guida un cinese nello scegliere cosa mangiare e bere. Occorre farsene una ragione, pena l’esclusione dal mercato in quanto “fuori range”, a vantaggio di altri concorrenti più flessibili ed adattivi (Francesi, Australiani, Americani …)
Quindi basta con queste fiere vetrina, autocelebrative e missioni di politica nazionale. Usciamo dal castello di argilla della nostra convinzione che essere italiani rappresenta di per se garanzia di successo e iniziamo a diventare “missionari” dei nostri valori per le strade della Cina, quella vera.
Ricordiamoci di come il Made in Italy ha conquistato il mondo: i nostri emigranti, questi milioni di “disperati” sono stati in grado di esportare concretamente il nostro “made in italy” e radicarlo in ogni dove, trasformando una drammatica emergenza, in uno dei più grandi successi commerciale di tutti i tempi.
Ora bisogna ricominciare anche noi la nostra lunga marcia che affascini, conquisti, emozioni i cinesi.
Gli strumenti e le materie prime per farlo le abbiamo. Ora serve la volontà di crederci fino in fondo e utilizzare meglio e con maggiore intelligenza, i pochi soldi e le risorse a disposizione.
Fiere di questo tipo sono solo delle deprimenti dimostrazioni che la strategia fino ad ora seguita, nel caso della Cina, è totalmente fallimentare.
Un esempio pratico? Mentre noi organizziamo questo tipo di inutili fiere, aspettando l’anno prossimo, i francesi continuano a firmare accordi commerciali e creano aziende miste Sino-Francesi per insegnare ai cinesi a produrre essi stessi il vino per il mercato interno, sostenendo tutto questo con la loro “grande distribuzione” presente in Cina (Carrefour).
I Francesi non vendono direttamente ma creano squadre di cinesi che vendano per loro. Questa è la chiave per capire la Cina, in una fase come questa, di crescente nazionalismo di una nazione che orgogliosamente intende costruirsi da sola la strada della propria identità e del benessere futuro.
Se analizziamo analogamente la situazione nel caso del caffè, c’è da rimanere sconcertati. Anche in questo caso dimostriamo che pur possedendo i migliori talenti a livello mondiale, stiamo rifiutando di giocare la partita commerciale e culturale, lasciando a giocatori modesti, quali ad esempio Starbucks, il vantaggio di far pagare fino a 5 Euro (una enormità in Cina, un vero furto!!) una tazza di acqua sporca!!!
Occorre riflettere velocemente e svegliarsi dal torpore della autoreferenza oramai storicamente datata, prima che del gusto italiano non ne siano pieni i resoconti storici, come quelli che esaltano il gusto dei greci e dei romani.
Ganbei a tutti. (Cin cin in Cinese)
Dal 23 al 25 Novembre scorso, a Shanghai si è tenuta l’8° edizione del Vinitaly – Cibus, manifestazione presentata come la più grande fiera Italiana sul tema in Cina.
Come è andata? Un totale fallimento.
In uno paese dove le fiere si pesano per le migliaia operatori presenti a ciascuna di esse, il Vinitaly di Shanghai potrà essere ricordata per la sostanziale assenza degli operatori di settore e dei responsabili dei ristoranti o wine-shop cinesi, non certo compensabili dalla presenza di alcuni intenditori cinesi a caccia del vino pregiato o dai gruppi di semplici curiosi, in veste del tutto personale e a scrocco (abitudine molto cinese in tema culinario!!), che passavano da un assaggio all’altro nei diversi stands.
Presenze ridotte a poche centinaia di persone in tutto, ben poca cosa per una fiera che intendeva essere la punta di diamante per penetrare il mercato cinese fatto da 1 miliardo 300 milioni di persone!!!.
Le ragioni di questo ulteriore passo falso della nostra diplomazia commerciale sono da ricercarsi nel perseverare negli errori di base, nel continuare ad organizzare fiere di questo tipo, che anche se organizzate per i prossimi 100 anni, continueranno ad avere lo scarso riscontro attuale sia in termini di visibilità che di ricadute commerciali.
Chi ha organizzato Vinitaly si comporta come se il mercato cinese fosse come gli altri mercati, dove la cultura del vino è comunque da tempo presente e radicata (Giappone e Corea ad esempio).
La Cina non ha una reale cultura in tal senso e va educata dalla base, ma per farlo non basta un evento espositivo.
Servono tutta una serie di eventi sul territorio per portare il piacere del gusto, del bere il vino italiano, direttamente nelle case dei cinesi e non sperare, come ora, che i cinesi vengano a cercare il gusto e il vino italiano.
Qui emerge tutta la fragilità della nostra diplomazia commerciale, incapace di andare oltre eventi spot e di facciata, senza poi dare seguito ad essi nei mesi successivi con azioni tangibili sul piano commerciale e di business.
La buona volontà NON basta, occorrono capitali economici ed umani per entrare in contatto con i cinesi quotidianamente, per fare conquistare all’agro-alimentare italiano lo spazio che merita nelle preferenze del cinese medio.
Occorre pianificare azioni di comunicazione più profonde e quotidiane, usando tutti i mezzi di informazione possibili, in modo da presentare il “sistema” del nostro gusto non come una serie di marchi, ma come un vero e proprio stile di vita; organizzare campagne di diverso stampo, visto che il modello fieristico / espositivo tradizionale non rappresenta da solo il modo migliore per entrare, penetrare e preparare i cinesi a diventare fan sfegatati del nostro gusto, dei nostri prodotti tradizionali, della nostra cultura.
E’ importante lavorare sul piano dell’integrazione dei gusti, facendo “evolvere” la nostra cucina e i nostri prodotti in leccornie ricercate dal cinese medio.
Un elemento fondamentale è rendersi conto che il prezzo rappresenta il parametro determinante che oggi guida un cinese nello scegliere cosa mangiare e bere. Occorre farsene una ragione, pena l’esclusione dal mercato in quanto “fuori range”, a vantaggio di altri concorrenti più flessibili ed adattivi (Francesi, Australiani, Americani …)
Quindi basta con queste fiere vetrina, autocelebrative e missioni di politica nazionale. Usciamo dal castello di argilla della nostra convinzione che essere italiani rappresenta di per se garanzia di successo e iniziamo a diventare “missionari” dei nostri valori per le strade della Cina, quella vera.
Ricordiamoci di come il Made in Italy ha conquistato il mondo: i nostri emigranti, questi milioni di “disperati” sono stati in grado di esportare concretamente il nostro “made in italy” e radicarlo in ogni dove, trasformando una drammatica emergenza, in uno dei più grandi successi commerciale di tutti i tempi.
Ora bisogna ricominciare anche noi la nostra lunga marcia che affascini, conquisti, emozioni i cinesi.
Gli strumenti e le materie prime per farlo le abbiamo. Ora serve la volontà di crederci fino in fondo e utilizzare meglio e con maggiore intelligenza, i pochi soldi e le risorse a disposizione.
Fiere di questo tipo sono solo delle deprimenti dimostrazioni che la strategia fino ad ora seguita, nel caso della Cina, è totalmente fallimentare.
Un esempio pratico? Mentre noi organizziamo questo tipo di inutili fiere, aspettando l’anno prossimo, i francesi continuano a firmare accordi commerciali e creano aziende miste Sino-Francesi per insegnare ai cinesi a produrre essi stessi il vino per il mercato interno, sostenendo tutto questo con la loro “grande distribuzione” presente in Cina (Carrefour).
I Francesi non vendono direttamente ma creano squadre di cinesi che vendano per loro. Questa è la chiave per capire la Cina, in una fase come questa, di crescente nazionalismo di una nazione che orgogliosamente intende costruirsi da sola la strada della propria identità e del benessere futuro.
Se analizziamo analogamente la situazione nel caso del caffè, c’è da rimanere sconcertati. Anche in questo caso dimostriamo che pur possedendo i migliori talenti a livello mondiale, stiamo rifiutando di giocare la partita commerciale e culturale, lasciando a giocatori modesti, quali ad esempio Starbucks, il vantaggio di far pagare fino a 5 Euro (una enormità in Cina, un vero furto!!) una tazza di acqua sporca!!!
Occorre riflettere velocemente e svegliarsi dal torpore della autoreferenza oramai storicamente datata, prima che del gusto italiano non ne siano pieni i resoconti storici, come quelli che esaltano il gusto dei greci e dei romani.
Ganbei a tutti. (Cin cin in Cinese)